Il giornalismo d’autore si è fatto bottega: le opinioni si scrivono in proprio, si vendono in abbonamento, si difendono senza filtro. Ma è un bene o un male?

Un tempo si diceva: “Ho letto un pezzo interessante sul giornale”. Oggi, sempre più spesso, si dice: “Hai letto cosa ha scritto tizio su Substack?”. E il punto non è solo “cosa ha scritto”, ma anche dove, quanto costa leggerlo e chi è disposto a pagarlo.
È un piccolo cambio di paradigma, che ha scardinato in silenzio una delle abitudini più radicate della nostra quotidianità: leggere gratis opinioni firmate.
In Italia questa transizione ha avuto pochi ma chiari volti riconoscibili. Il più emblematico è quello di Selvaggia Lucarelli, che dopo anni di articoli, blog, post e social, ha deciso di mettere un cartello chiaro all’ingresso del suo spazio editoriale: vale tutto, ma non è gratis.
Chi ha vissuto gli anni d’oro del blogging se la ricorda: ironica, spigolosa, onnipresente. Poi la svolta: lenta, ma decisa. Prima con Il Sottosopra, newsletter diventata podcast, poi con l’approdo definitivo su Substack con “Vale Tutto”, il suo spazio a pagamento.
Dentro ci trovi riflessioni personali, polemiche ben argomentate, storie, aneddoti, commenti sulla cronaca e sulla società. Alcune – come quelle sul genocidio in Palestina – in versione (lodevolmente) gratuita. Ma soprattutto ci trovi la sua voce, senza il filtro di una redazione o di un algoritmo.
Quanto costa abbonarsi a Substack e che cosa trovarci
Un esperimento? Mica tanto. Una scelta strategica, consapevole, perfino imprenditoriale. A oggi, Vale Tutto è una delle newsletter personali più lette in Italia. Il prezzo d’ingresso? 7 euro al mese. Il vero prezzo? L’idea che leggere le opinioni non sia più un diritto automatico, ma un privilegio scelto e acquistato.

Il caso Lucarelli non è isolato. Substack e piattaforme simili hanno sdoganato un’idea: che la firma possa valere più del contenitore. Non serve un giornale, basta un link. Non serve una testata, basta una mailing list.
Ci sono altri esempi: Francesco Costa, che da anni coltiva una relazione diretta con il suo pubblico. Luca Sofri, che alterna newsletter e microeditoriali. E ancora, giornalisti di settore, scrittori, ex editorialisti che hanno capito una cosa semplice: se la gente ti legge perché sei tu, tanto vale portarla nel tuo salotto. Con una piccola offerta libera, che tanto libera non è.
Questa nuova economia dell’attenzione crea un paradosso: più si è liberi, più si diventa selettivi. Si scrive solo per chi è già d’accordo, o almeno già dentro. L’idea del lettore occasionale, del passante che si ferma incuriosito, rischia di sparire. E con essa, forse, anche una parte del confronto.
Niente condizionamenti e niente clickbait: Dio benedica “i” Substack
Certo, il vantaggio è evidente: niente editori, niente direttori, niente tagli e soprattutto niente clickbait. Ma dall’altra parte, chi decide di mettersi in proprio deve fare tutto: scrivere, promuoversi, curare la community, tenere i conti. Il giornalista diventa un piccolo editore digitale. Un freelance con l’ufficio stampa in tasca.
E il pubblico? È chiamato a scegliere, a scommettere. Non solo sul contenuto, ma sulla persona. Si abbonano più facilmente i fan, gli affezionati, quelli che vogliono sentirsi parte di qualcosa. Non c’è più il lettore, c’è il follower pagante. E in fondo, anche questo cambia il tipo di opinione che si scrive.
È un’epoca in cui la voce vale, ma costa. E chi vuole continuare a dire la sua, oggi, deve imparare a venderla. Magari senza sconti. Magari con l’idea – un po’ romantica, un po’ spietata – che “vale tutto”. Ma solo se qualcuno è disposto a pagarlo.